La Wunderkammer, per quelli che non si sono mai imbattuti in questo termine, assorbe, come spesso si verifica nella lingua tedesca, più concetti in una sola parola.In questo caso la deduzione è alquanto fattibile.
Dal XVI secolo in poi facoltosi collezionisti scelsero di radunare in uno spazio organico tutti gli oggetti straordinari e preziosi intercettati tra viaggi ed acquisti. Un’intera geografia per lo spirito, oltre che per gli occhi. Delimitare un perimetro di inviolabile bellezza. Perché anche quella è un cibo.
Ecco, consultando sempre più dolentemente giornali e altri media, l’immagine che mi assale con più ferocia, è proprio quella di una stanza degli orrori, del negativo fotografico del buono e del sano che dovrebbe sostentarci. Un ambiente apparentemente infinito, considerando le sterminate valli di pagine sempre meno stampate, eppure asfittico. Un’immensità a cui manca l’aria.
Notizie da cui sembra d’obbligo che grondi l’angoscia, come se la paura fosse un nostro bisogno.
Dopo virus e guerre da cui farci scuotere, ora ci si concentra sul male vicino, quello che alberga nelle nostre geometrie intime. Ed è questo forse ad atterrirci di più. Il pensiero che il buio sgorghi dal lavello di casa, dallo sguardo di chi dovrebbe proteggerci. Perché in questi casi non basta disconnetterci. O virare su una serie tv.
E spesso la sovrabbondanza di scavi e dettagli nel corpo tiepido di quell’orrore sembra più sciacallaggio che dovere informativo.
Anche in questo caso, succede che la letteratura sappia essere un terreno diverso. Un’area dove anche il “vero” più turpe può essere narrato, perché da quella gola senza ritorno possa affiorare un messaggio possibile.
Da Truman Capote a Emmanuel Carrère, da Tory Hayden ad Alice Sebold, eventi personali o mulinanti intorno alle proprie vite hanno assunto le fattezze di una storia da fermare.
Un romanzo di cronaca, per provare a descrivere il non raccontabile. Un tracciato in cui seminare domande e sperare che un senso germogli.
Giuseppe Genna s’immerge in un crimine che ancora risuona sotto la crosta.
Esattamente tredici anni fa una ragazzina saluta la sua famiglia per scivolare in un giorno qualsiasi. È una ginnasta e deve allenarsi. Ma quel campo sportivo non la vede spuntare.
Dopo tre mesi quella ragazzina è un cadavere gelido con la bocca eternata nell’urlo. Yara (Bompiani, 2023) non c’è più. Al suo posto un caso spinoso, in cui si impigliano ricerche ed indagini, un nome attorno a cui si sguinzagliano metodi scientifici mai sperimentati. Verrà arrestato un uomo che, dal budello del suo ergastolo, non ha ancora smesso di dichiararsi innocente.
Genna affonda, incalza, le ombre in cui scandaglia ci parlano addosso. Dell’angoscia impronunciabile, quella che risucchia gli affetti senza dovere spiegazioni. Come fosse ovvio aspettarsi il marcio.
Il suo è uno stile lenticolare e implacabile, che ci inchioda all'irreparabile. A come abbiamo fallito. A cosa abbiamo perduto.
«Alla fine, se una fine c'è, noi siamo in un nevischio di persone e oggetti e posizioni e voci, dentro la semisfera di vetro di un inverno natalizio innevato, che capovolgiamo, una volta, due volte, la neve vortica sul piccolo paese dentro la semisfera, la neve che insabbia. La neve dilava, conserva e fa degradare. Nella neve una piccola sagoma, coperta di neve, scoperta dalla neve: non la vediamo».
Quel male banale, come lo designò Hannah Arendt ben prima di noi, incarnato da persone qualunque, a cui non occorre nessuna patente traumatica per scardinare un confine.
Persone non povere, non maltrattate, magari sprofondate in un agio che diventa anche noia, che non è mai abbastanza. Manuel Foffo e Marco Prato sono due ragazzi fortunati. I soldi non sono un problema. Li usano per farcire il loro tempo di droga ed eccessi. Finché una sera, il 4 marzo 2016, consumano un delitto che scavalca l’immaginabile. Adescano un ragazzo, lo contattano affinché li raggiunga a casa. E quello che si preannuncia come un festino, trascende in un rito pagano. Un sacrificio inondato di sangue.
Nicola Lagioia ricostruisce una vicenda difficilmente riferibile, con un equilibrio narrativo raro, tratteggiando per noi La città dei vivi (Einaudi, 2017). In esso Roma è teatro e personaggio, immortale e scempiata, pasto inerme immolato ai gabbiani e scandita dai lezzi dei suoi spettacoli immondi.
La biografia dei carnefici e quella delle vittime, esistenze che si intrecciano nel dedalo di vie come tante, in cui passiamo sbuffando come merce dell’Atac.
Quei diavoli potrebbero essere i nostri figli? Quand’è che qualcosa si scolla? Quando il sorriso di un ragazzo diventa abitato da un sorso di notte, e poi da un altro, finché non incombe il diluvio?
«È più facile contrastare un illecito quando è chiaro da cosa è spinto chi lo compie. Ma il motivo per cui dei ragazzi assolutamente normali, a cui non mancava niente sul piano materiale, sembravano vivere come autentici disperati – per le droghe che prendevano, per come non riuscivano a mettere a fuoco la propria stessa identità, per la preoccupazione parossistica che avevano del giudizio altrui, per l'uso irrispettoso che facevano dei propri corpi, per il rapporto che intrattenevano con il denaro, per come sembravano incuranti di sprecare interi periodi delle loro vite – lo lasciava in uno stato di assoluta perplessità»
La minaccia che sbriciola i nostri mattoni. Nulla ci preserva se il tetto scricchiola. Se assurge a fortezza di istinti inconfessabili. Se giusto e sbagliato non dimorano nel nostro letto. Perché a legiferare è lo Statuto della facciata. L'incoercibile mantenimento del decoro. Sorella mio unico amore (Nave di Teseo, 2022) di Joyce Carol Oates ci squarcia la pelle con un ennesimo fatto realmente avvenuto.
In un pacifico anfratto del New Jersey viene inghiottito un angelo. Edna Louise, il 29 gennaio 1997, viene assassinata all'età di sei anni e nembostrati di sospetti si addensano intorno al suo fortino.
È suo fratello Skyler, dal riparo della distanza, a riferire quanto disperso tra le abrasioni degli anni colati.
Turbamenti, colpe, pensieri escoriati confluiscono nel gorgo di un caso giudiziario, i cui esiti sono tutt'altro che salvifici. Quali peccati corali doveva scontare la povera Bliss? La sua bellezza era un compenso o una condanna? A cosa si è disposti pur di riscattare i propri scorci frustrati?
La ferita è un ritornello, una canzone efferata che riecheggia in solitudine:
«Skyler aiutami, Skyler mi sento così sola in questo posto. Skykler ho tanta paura, mi fa tanto male Skyler. Non mi lascerai in questo posto spaventoso, vero Skyler? Nove anni dieci mesi, cinque giorni. Questa voce di bambina nella mia testa»
Joseph Brodsky sosteneva che il male mette radici quando un uomo pensa di essere migliore di un altro. Perché quel ghigno sulfureo potrebbe artigliare anche noi o le persone che amiamo.
Evie vorrebbe quello che agognano in tante: la carezza di uno sguardo, un passo impigliato nel suo. Viene agganciata da una cricca di adolescenti scalze, scarmigliate, con la vita al vento.
Sono loro Le ragazze (Einaudi, 2017) di cui parla Emma Cline. Le stesse che, ipnotizzate da Russell e dal suo carisma oscuro, si macchieranno di una mattanza. L'episodio attinto è quello Charles Manson e della sua “famiglia”, artefici del mostruoso omicidio di Sharon Tate e di quattro suoi ospiti tra l'8 e il 9 agosto del 1969. E il desiderio urlante di ritenersi riempite accetterà di dissetarsi alla fonte peggiore.
«E rieccola, la loro ammirata venerazione per Russell, la loro certezza. Io gliela invidiavo quella fiducia, il fatto che qualcuno potesse cucire insieme le parti vuote della tua vita fino a farti sentire che sotto di te c'era una rete, capace di legare ogni giorno al giorno successivo» .
Il pericolo ci sonnecchia dentro, nei margini che lasciamo affollare di mille rammendi.
Quanto più ci sentiamo fragili e attraversabili, tanto più scambieremo minacce per promesse e malattie per guarigioni. Tanto più l'altro diventerà un appiglio per tenerci a galla, anche quando volesse affogarci.
E potremmo esistere fin troppo a lungo divorando il rischio, senza mai sentirne il sapore.
Ted Bundy è un ragazzo modello destinato a risplendere, come uomo e come avvocato. Eppure è un assassino seriale, in grado inanellare una serie di delitti rimasti impuniti. 28 volte, tutte donne. Colpite, estinte, ingollate dall'oblio, dal 1974 al 1978. Ann Rule, poliziotta in forza al dipartimento di Seattle, conosce Ted e lo frequenta, ignorando il demone che gli popola le ossa.
Ignorando di toccare il “killer delle studentesse”. Ciò che scaturisce dall'aver circumnavigato il bordo dell'abisso è Un estraneo al mio fianco (Tea, 2016), un resoconto come pochi altri, lucido, inclemente, epifanico. L'identikit di un autentico risveglio. E delle infinite forme di inconsapevolezza.
Spesso gli spettri sono lì, accanto ai nostri solchi, prossimi, noti, eppure totalmente nuovi e capaci di scalfirci.
«Cercai di aiutarlo, ma non riuscii mai ad alleviare il suo dolore, perché Ted non riuscì mai a confidarmi il suo tormento: era un fantasma, che lottava per sopravvivere in un mondo che non era fatto per lui. Dev'essergli costato uno sforzo tremendo. Le caratteristiche di quel fantasma erano costruite con infinita pazienza e attenzione, ma bastava un passo falso perché crollassero. Ted Bundy appariva agli occhi del mondo come un uomo affascinante, con un corpo curato nei minimi dettagli, una barriera di forza per impedire di vedere il terrore che vi regnava dentro».
Anche questo sanno fare i libri. Offrirci uno specchio che ci rimandi ciò che è nostro. Nonostante tutto.
Il timore di guardarci e di non riconoscerci. Di difenderci anche da ciò che ci appartiene.
Le altre strade di carta
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Di
| Bompiani, 2023Di
| Einaudi, 2022Di
| La nave di Teseo, 2022Di
| Einaudi, 2017Di
| TEA, 2016Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
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