Del potere salvifico e fascinatorio del racconto, il mito persiano di Sherazade è forse l’esempio più vivido. La protagonista, infatti, per mille e una notte, dona una storia al sultano in cambio della propria salvezza. Se questa lo allieterà, Sherazade sfuggirà ancora per un’altra volta alla propria condanna a morte, e così all’infinito. Racconto e seduzione ne Le mille e una notte si intrecciano di continuo; ma a voler saltare su un altro livello interpretativo, tra le righe del mito si legge ancora oggi quanto la letteratura possa considerarsi un’inscalfibile forma di riscatto e resistenza.
E proprio grazie ad alcune delle voci delle Figlie di Sherazade, per citare il saggio sulla letteratura femminile iraniana della studiosa Anna Vanzan, è possibile riprendere le fila della storia di un paese di tradizioni millenarie, le cui strade dallo scorso settembre si sono riempite delle grida di una rivolta popolare, che non accenna ad arrestarsi.
Il movente ha radici profonde nella storia del paese, sebbene oggi la protesta abbia il volto di migliaia di donne e di una in particolare, una giovane di ventidue anni, Mahsa Amini, fermata dalla Gasht-e Ershad, la polizia morale, all’uscita della metropolitana a Teheran, e poi picchiata a morte poiché colpevole di qualche ciocca di capelli sfuggita dall’hijab intorno al capo.
Da quel 16 settembre, nonostante i tentativi del governo di imputare la morte della ragazza a un incidente e a cause pregresse, le proteste sono esplose in tutto il paese. Ad alimentarle, l’insofferenza e la delusione innescate ormai più di quarant’anni fa dalla rivoluzione islamica, in cui gran parte degli oppositori dello scià avevano riposto invano le proprie speranze di riscatto.La rivoluzione del ‘79 rappresenta, infatti, un vero e proprio spartiacque nella storia del paese, così come emerge dal romanzo di Nahal Tajadod, L’attrice di Teheran. Al centro, l’amicizia tra due donne: una scrittrice che ha lasciato l’Iran al tempo della monarchia e che conserva il ricordo di un paese laico e filoccidentale, e una giovane attrice, cresciuta nell’opprimente regime degli ayatollah.
Di questo viaggio di carta, a più voci narranti, un elemento ricorrente è il punto di vista: esterno, relegato in un esilio spesso sofferto, ma inevitabile. «Dell’Iran mi manca un po’ tutto (…) di Teheran rimpiango persino l’inquinamento», ammette all’inizio di una lunga intervista Shirin Ebadi, giurista, avvocato, autrice tra gli altri del saggio Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani. Prima donna iraniana e musulmana a ricevere il Premio Nobel per la pace nel 2003, Shirin Ebadi dedica la propria vita alla lotta per i diritti umani e alla democrazia.
A raccogliere la testimonianza di Shirin Ebadi e raccontare il suo esilio in una serie di interviste realizzate tra l’Italia e lo studio di Londra della Premio Nobel, c’è un'altra donna: Farian Sabahi, giornalista e docente di storia e politica dell’Iran. Di padre iraniano e madre piemontese, Farian Sabahi affida al ritmo di un racconto in prima persona, femminile e singolare, la propria storia in bilico tra due mondi distanti. È una Do raghe, una mezzosangue, e non ha mai potuto farci niente. È qualcosa da cui non riesce ad affrancarsi: da qui la scelta provocatoria del titolo, Noi donne di Teheran, capitale di un paese che conosce e a cui sente di appartenere pur non essendovi nata.
E c’è invece chi è stata sin dalla nascita testimone della violenta repressione del regime dei mullah, pur avendo trascorso la propria vita lontano dall’Iran. Sahar Delijani, come racconta nel suo romanzo autobiografico L’albero dei fiori viola, è nata all’indomani della rivoluzione islamica nel carcere di Evin, a Teheran. Figlia di colti oppositori al regime, la madre l’ha data alla luce di fronte alla propria carceriera, come accade nelle pagine del suo romanzo a una delle protagoniste della saga familiare, in cui la storia di un paese riscrive inevitabilmente le vite di tutti i personaggi.
Delle torture e della violenza consumata tra le squallide mura di un carcere, ci parla anche l’intenso romanzo della scrittrice e reporter Fariba Hachtroudi, L’uomo che schioccava le dita. La storia della protagonista, prigioniera sottoposta alle torture più sadiche, ricalca quella di molte donne e uomini oggi in rivolta contro il regime. In tutto il libro non si fa mai esplicito riferimento all’Iran o alla prigione di Evin, sebbene i fatti siano ambientati in una Repubblica teocratica in cui non è difficile riconoscere le stesse atrocità del paese d’origine dell’autrice.
Giunte al quinto mese consecutivo, le proteste in Iran non si sono ancora fermate. Neppure la violenza perpetrata dal regime, le esecuzioni capitali, i corpi degli uccisi non restituiti alle proprie madri, le torture, la prigionia, hanno arginato l’onda d’urto delle rivolte. E gli uomini sono scesi in piazza insieme alle donne, che dopo decenni hanno osato sfidare la repubblica islamica e le sue regole: si sono sfilate il velo e hanno lasciato che il vento soffiasse tra loro i capelli, magari in sella a una motocicletta su cui è tuttora impedito loro di salire.
L’eco del grido Zan, zendegì, azadì, “Donna, vita, libertà” è risuonata nelle piazze di tutto il mondo, ma nonostante ciò le rivolte continuano a costare ancora troppe migliaia di vite. «Perché vogliamo essere liberi di ballare per strada (…) aspettando il sole dopo la notte senza fine», canta Shervin Hajipour nella sua Baraye, scritta dopo la morte di Mahsa Amini. Ora è finalmente l’alba tanto attesa, e la lotta per i diritti civili delle donne e degli uomini in Iran è ormai un urlo disperato e angosciante, che il resto del mondo non può più ignorare.
Vi proponiamo un viaggio in dieci libri per riscoprire l’Iran, oggi attraversato dall’impeto di una rivoluzione in nome dei diritti civili rivendicati da quel grido.
Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze tremende, Azar Nafisi ha dovuto cimentarsi in un'impresa fra le più ardue, e cioè spiegare a ragazzi e ragazze esposti in misura crescente alla catechesi islamica una delle più temibili incarnazioni dell'Occidente: la sua letteratura.
Nessuno meglio di Farian Sabahi, docente universitaria e giornalista italo-iraniana, può parlarci della condizione delle donne in Iran. "Noi donne di Teheran" è un racconto - in prima persona femminile - su cosa vuol dire essere bambine, ragazze, donne in un paese complesso e affascinante, pieno di potenzialità e contraddizioni. L'Iran è una repubblica islamica intrisa di imposizioni e divieti che spesso sfociano in una violenta repressione.
Nella più sordida prigione di una non meglio identificata Repubblica teologica in cui non è difficile riconoscere l'Iran, terra d'origine dell'autrice Fariba Hachtroudi, la prigioniera 455 è un mito. Ogni giorno, bendata, viene torturata crudelmente, con sadismo, eppure non parla. Resiste. Troppo, per i suoi carnefici.
Teheran, 1978. Nahid conosce Masood la sera in cui viene ammessa all'università di Medicina. Entrambi diciottenni, hanno nelle vene il fuoco della passione e della giovinezza, di chi si sente invincibile perché è certo di essere nel giusto. La rivoluzione li infiamma.
È il 2000 e in Francia sta per scoppiare il caso editoriale del decennio: il fumetto di una giovane autrice iraniana invade le librerie e, con un clamoroso effetto domino, conquista in breve tempo il mercato mondiale. Persepolis è il racconto irriverente e appassionante della vita a Teheran di Marjane, dall’infanzia fino all’età adulta.
Due donne si parlano. Due iraniane. La prima, nata dopo la rivoluzione del 1979, ha conosciuto solo il regime islamico ed è una giovane attrice di grande successo. La seconda, scrittrice rinomata, è cresciuta nell'Iran dello scià. La ragazza racconta alcuni episodi della propria infanzia, le vessazioni subite dai familiari laici e artisti, la folgorante carriera nel cinema, il peso della censura e i lunghi interrogatori da parte dei Guardiani della Rivoluzione.
Elham è l’avvenente segretaria di un uomo d’affari della Repubblica Islamica. È abituata a essere compiacente e carina, a venire considerata solo per il suo aspetto e a ricevere ordini, anche da se stessa. Ma quando il capo le rivela che suo padre, di cui si sono perse le tracce da venticinque anni, è vivo e abita in Svezia, la maschera da bambola crolla e riaffiora la bambina cresciuta in un covo di comunisti durante gli anni della rivoluzione.
Una vecchia casa con il portone azzurro, stretta tra i palazzi della moderna Teheran. E al centro del cortile, un magnifico albero di jacaranda. È qui, sotto un tripudio di fiori dalle mille sfumature di rosa e di viola, che si intrecciano le storie di Maman Zinat, Leila, Forugh, Dante, Sara e tanti altri. Membri della stessa famiglia perseguitata da un regime brutale.
Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a ricevere il Premio Nobel per la Pace, ha ispirato milioni di persone nel mondo con il suo impegno da avvocato per i diritti umani, difendendo soprattutto le donne e i bambini dal brutale regime iraniano.
In una frenetica Tehran contemporanea, tra le sue strade e i suoi ingorghi, i destini di tre donne diverse si intrecciano di nuovo nel tentativo di superare l'assenza dell'uomo che le univa. Khosrou manca da casa dai tempi della guerra Iran-Iraq, ma la madre non si è ancora arresa alla sua scomparsa e ne mantiene intatta la stanza.
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