Sapore di sala

L'ironia di Ernst Lubitsch, 75 anni dopo

Di Ernst Lubitsch (Berlino, 1892 – Hollywood, 1947) Woody Allen diceva: «Il cosiddetto tocco Lubitsch ha condizionato il cinema brillante per decenni e ha condizionato me. Ma non sarò mai come lui». Detto da uno come Allen è un endorsement non banale.

A inserire Ernest nell’ambiente è Max Reinhardt, gran guru del cinema tedesco. E così il giovane diventa attore in piccole parti e aiuto regista in film di non eccelsa qualità. Ma qualcuno a Hollywood lo ha notato, una che conta, molto. Trattasi di Mary Pickford, moglie del superdivo Douglas Fairbainks. La coppia, insieme a Chaplin e Griffith, altri giganti, ha fondato la United Artists. Gran colpo di fortuna per Ernst, che comincia a essere “Lubitsch”.

È il 1923 e dunque il regista ha preceduto di dieci anni quella migrazione di magnifici talenti che lasciarono la Germania con l’avvento di Hitler. Alcuni nomi: Wilder, Lang, Zinneman, Preminger, Siodmak. Erano tutti figli di quella cultura di Weimar che aveva rifondato le arti ai primi del Novecento, e dato vita alla dominante scuola dell’espressionismo che aveva reinventato il cinema. Dunque quella base di cultura profonda che si fondeva col senso spettacolare del codice hollywoodiano avrebbe dato prodotto una serie di capolavori assoluti.

Hollywood accolse Lubitsch con stima e passione, perché lo aveva capito e gli attribuiva una grande qualità preconcetta. Era la premessa per i capolavori che poi il regista firmò, da Partita a quattro, La vedova allegra, Ninotchka, Scrivimi fermo posta, Il cielo può attendere, Vogliamo vivere. Tutti titoli che fanno parte della storia nobile del cinema.

Il focus è su quattro titoli che rappresentano l’ispirazione complessiva dell’artista, che nel 1947 fu onorato da Hollywood con un Oscar alla carriera.

Il cielo può attendere (1943)

Dal testo Buon compleanno di Laszlo Bus-Fekete, si raccontano i vari anniversari, dai sei ai sessantasei anni, di Van Cleve, un playboy che nella vita ha badato solo a spassarsela (però amando molto la moglie e le amanti). Van Cleve muore e va all’inferno, dove pensa di dover scontare tutti i suoi peccati. Ma il diavolo, dopo aver sentito la storia della sua vita, lo manda, magnanimo, in paradiso. Dopotutto, che cosa mai ha fatto Van Cleve se non godersi la vita. Tocco e humor alla Lubitsch, appunto.

La vedova allegra (1934)

Franz Lehar compositore di lingua tedesca nato in Ungheria la scrisse nel 1905, valendosi del libretto di Victor Leon e Leo Stern, viennesi puri. Siamo dunque nello scenario più prezioso di quella musica e quella cultura, la Vienna fin de siècle. Le musiche di Lehar sono parte del più bell’incanto dello spettacolo di sempre. Lubitsch fece acquisire dalla Metro i diritti della Vedova e dispose la produzione che perfezionò il cast assumendo, per le canzoni di connessione, la coppia magica, Rodgers e Hart, quelli di Blue Moon, e molto altro. La protagonista era Jeanette MacDonald, per la seduzione ci voleva un europeo e fu scelto Maurice Chevalier. Per la scenografia venne assunto il numero uno, Cedric Gibbons, vincitore di undici Oscar, che adattò le luci e le ombre della scuola tedesca allo sfarzo esplosivo ma elegante, seppure in bianco e nero, dell’estetica di Hollywood. Grandi melodie viennesi combinate col musical hollywoodiano travolgente, e il rigore dell’espressionismo con la spettacolare estetica di quel cinema.

Vogliamo vivere (1942)

È del 1942, ma da noi arrivò nel ’47, per la guerra e tutte le note ragioni. To Be or Not to Be non ha perso un millesimo della sua vedibilità. Nel film si racconta di una compagnia teatrale attiva a Varsavia quando nel ’39 Hitler invade la Polonia. Fra fiction e realtà la compagnia... distrugge il führer. Vogliamo vivere riesce ancora a essere perfetto in tutti i suoi segmenti. È trasversale nei decenni. Ed era una premessa al film di Chaplin Il grande dittatore. Era il modo americano, o di tutte le democrazie libere, di combattere quella guerra. Attraverso l’intelligenza e l’umorismo. Con una potenza, che non era quella delle armi, ma decisamente efficace. 

Ninotchka (1936)

È la storia di una severa commissaria politica russa che si precipita a Parigi dove tre suoi collaboratori, sedotti dalla Ville lumière, si sono dati alla pazza gioia. Lei sarebbe animata dalle migliori intenzioni, ma incontra un affascinante perdigiorno, e cade nella rete delle mollezze occidentali. Si tratta di un film molto importante e molto mirato. Hollywood accoglieva spesso le direttive di propaganda governative e quelli erano gli anni del terrore del comunismo. Greta Garbo, col suo immenso appeal, fu efficacissima in quel senso. Ninotchka che beve champagne e si prova un incredibile cappellino, e poi, tornata a Mosca, divide casa (e gabinetto) con altre due famiglie, valeva molto più dei discorsi dei politici e dei proclami dell’intelligenza schierata. Il comunismo veniva ridicolizzato, e anche esorcizzato. Far politica divertendo, secondo quel genio di Lubitsch. Un’altra possibilità del cinema. La propaganda ebbe ancora bisogno di Ninotchka quando, esplosa la guerra fredda fra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta, si trattò di dare una rispolverata all’immagine povera, cattiva e prepotente del comunismo. Il film era sempre vedibile. E lo è ancora.

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