Sapore di sala

I film italiani sulla Resistenza

Tutto comincia dall’archivio, proprio nel 1945, anno in cui finisce la Seconda Guerra Mondiale. Ed è un documentario, Giorni di gloria, che apre la carrellata del cinema italiano della Resistenza a 77 anni della Liberazione. Probabilmente l’approccio alla realtà, di un paese lacerato dal conflitto bellico e dalla lotta al fascismo parte proprio da lì. Ideato dal montatore Mario Serandrei che lo ha firmato insieme a Luchino Visconti, Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero, ripercorre alcuni momenti cruciali dal settembre del 1943 all’aprile del 1945: la vita dei partigiani sulle montagne, la strage delle Fosse Ardeatine, i rastrellamenti dei nazisti, i processi al capo della polizia romana Pietro Caruso, la fucilazione del torturatore Pietro Koch che anticipano le prime immagini della liberazione delle grandi città del Nord Italia.

Giorni di gloria segna un passaggio fondamentale. Lo scarto tra finzione e realtà, attori professionisti e presi dalla strada, si annulla. In quel film di montaggio c’è già il modo in cui le storie vengono mostrate. La dimensione privata s’incrocia con quella pubblica e nella ricostruzione c’è spesso, se non quasi sempre, l’illusione documentaristica.  

Una delle immagini simbolo del cinema della Resistenza è quella di Pina che viene uccisa da una raffica di colpi di mitra mentre insegue il camion dove viene portato via il suo compagno Francesco, un tipografo antifascista in Roma città aperta (1945). Il volto di Anna Magnani, e alla fine quello Aldo Fabrizi nei panni di Don Pietro che viene fucilato, diventano l’urlo disperato ma anche di rivolta che poi ha avuto eco nel cinema di tutto il mondo.

Senza tornare indietro sulle origini del Neorealismo (c’è chi lo fa risalire proprio a Roma città aperta e chi ne rintraccia invece la genesi in Ossessione di Luchino Visconti, realizzato tre anni prima), da quel momento è proprio il cinema italiano che cambia. L’aderenza al vissuto di Roberto Rossellini è impressionante così come il modo di far avvertire i segni delle torture e del dolore. E probabilmente bisogna ritornare a Giorni di gloria per il "viaggio in Italia" di Paisà (1946) che segue in sei episodi l’avanzata delle truppe anglo-americane dallo sbarco in Sicilia fino al Delta del Po o per l’impatto devastante del dodicenne Edmund immerso tra le macerie di Berlino nel 1946 in Germania anno zero (1947).  

Rossellini, tra i cineasti più amati dei critici/cineasti dei “Cahiers du cinéma” e della Nouvelle Vague, resterà per sempre unico nell’annullare la distanza tra quello che sta avvenendo sullo schermo e lo sguardo dello spettatore. Sembra che ci sia sempre una macchina da presa nascosta davanti a quello che sta avvenendo. C’è però anche il suo punto di vista, solo apparentemente oggettivo, dove dietro l’osservazione della realtà c’è invece un impeto sentimentale verso i suoi personaggi che sembrano di carne ed ossa anche sullo schermo, dove gli attori vivono le emozioni dei personaggi e fanno avvertire, insieme, paura, rassegnazione, rabbia, speranza.

Altri squarci del cinema della Resistenza in Rossellini saranno presenti anni più tardi anche in Il Generale Della Rovere (1959) con il protagonista interpretato da Vittorio De Sica (altro cineasta fondamentale del Neorealismo e anche degli effetti di un "cinema post-Resistenza") nei panni di un truffatore che viene arrestato dalla Gestapo ed Era notte a Roma (1960) nella figura dei tre prigionieri di guerra che dopo l’8 settembre 1943 si rifugiano nell’abitazione di una popolana romana. 

È un percorso pieno di tappe quello sul cinema italiano della Resistenza. Oltre all’immagine-simbolo di Anna Magnani in Roma città aperta, si potrebbero catturare diversi frame in alcuni dei film italiani più importanti: la figura di Alberto Sordi nei panni del sottotenente che attraversa il tunnel con i suoi soldati in uno dei titoli imprescindibili sul tema, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini e in tutta la parte iniziale di Una vita difficile (1961), uno dei film migliori di tutta la filmografia di Dino Risi, dove nel suo personaggio c’è già l’arte di arrangiarsi dell’italiano medio, prima sottotenente nel Regio Esercito e poi partigiano dopo l’8 settembre.  

Anche la "commedia all’italiana", nella ricostruzione delle pagine del cinema della Resistenza, diventa ancora più realistica immergendo i suoi protagonisti nella Storia come nel caso del graduato della milizia Arcovazzi in Il federale (1961) di Luciano Salce dove la figura di Ugo Tognazzi rappresenta, nel suo viaggio in sidecar con il professore antifascista, gli ultimi momenti di un paese che sta per voltare pagina.  

Tra le moltissime immagini che restano del cinema italiano della Resistenza, ci sono gli "eroi di tutti i giorni" incarnati da ragazzi che si uniscono alla lotta partigiana e compiono un’azione di sabotaggio su un ponte in Un giorno da leoni (1961) o l’affresco corale che porta i cittadini napoletani nel settembre 1943 a liberarsi dei nazisti in Le quattro giornate di Napoli (1962), entrambi diretti da Nanni Loy. Oppure, ancora, la vicenda dei partigiani che si vogliono impossessarsi delle armi dei nazisti in Achtung! Banditi! (1951), esordio alla regia di Carlo Lizzani, della contadina rimasta vedova che diventa staffetta dei partigiani in L’Agnese va a morire (1976) di Giuliano Montaldo, del gruppo di contadini di San Miniato occupata dai tedeschi che si mette in fuga in La notte di San Lorenzo (1982), che oltre al racconto ha anche una potenza evocativa notevole.  

C’è ancora la distanza del tempo in Strategia del ragno (1970) di Bernardo Bertolucci ma nella figura del figlio dell’eroe della Resistenza ucciso nel 1936 c’è la necessità non solo di rileggere la Storia ma proprio di riviverla, di scoprire quello che è nascosto anche come percezione di ciò che è accaduto e degli affetti. Forse per questo, da Giorni di gloria e Rossellini in poi, nel miglior cinema italiano che ha mostrato la Resistenza, c’è già uno schieramento deciso dei registi che diventano militanti. Anche a distanza di anni.     

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